CAMPI DI INTERNAMENTO
1940 - 1943
  

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COLLEGAMENTI CON L'ARCHIVIO DOCUMENTALE  ( vedi anche mappa )

Villa Oliveto (Civitella della Chiana)


Campi d’internamento (1940-1943)

Durante la seconda guerra mondiale, il regime fascista utilizzò l’internamento civile per colpire le  persone “indesiderabili” e coloro che erano ritenute “pericolose e sospette sotto il punto di vista militare e politico”. Il primo giugno del 1940 il Ministero dell’interno, che ne gestiva l’applicazione, impartì ai prefetti l’ordine che “Appena dichiarato lo stato di guerra dovranno essere arrestate e tradotte in carcere le persone pericolosissime sia italiane che straniere di qualsiasi razza, capaci di turbare l’ordine pubblico aut commettere sabotaggi o attentati nonché le persone italiane aut straniere segnalate dai centri di controspionaggio per l’immediato internamento”. Alcuni giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, iniziarono i primi arresti e le traduzioni nei campi e nelle località di internamento.

La destinazione al campo di concentramento od al soggiorno coatto nei comuni, il cosiddetto internamento “libero”, dipendeva dal grado di pericolosità attribuita all’arrestato. Sistema, questo, introdotto nell’ordinamento già a partire dal 1926, con l’istituzione del confino di polizia, misura finalizzata all’isolamento ed alla repressione del movimento antifascista, che prevedeva l’invio e la permanenza forzata in alcuni comuni della penisola oppure, rispetto a coloro che erano ritenuti maggiormente pericolosi in linea politica, nelle isole.

Le persone da assoggettare a misura restrittiva della libertà personale erano individuate attraverso le segnalazioni provenienti da fonti numerose e diverse, quali prefetti, Ovra, ambasciate, ministeri, ma soprattutto attraverso le segnalazioni del Casellario politico centrale, nel quale già dal 1935 erano stati inseriti gli elenchi degli italiani e degli stranieri da sottoporre a speciale controllo in caso di conflitto.

L’attività di coordinamento era affidata all’Ufficio internati attivato nell’ambito della Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’interno.

Alla vigilia del conflitto mondiale iniziarono gli accertamenti nei confronti dei possibili sudditi nemici presenti nelle province, che le prefetture divisero in tre gruppi: “da espellere, da assegnare ai campi di concentramento e da allontanare dalle località di residenza”.

Non vi sono ancora, in questa prima fase, riferimenti specifici agli ebrei. Il 26 maggio del 1940, tuttavia, il Ministero dell’interno inviò al Ministero degli esteri una lettera nella quale si sosteneva che “gli ebrei stranieri residenti in Italia e specialmente quelli che vi sono venuti con pretesti, inganno o mezzi illeciti, dovrebbero essere considerati appartenenti a Stati nemici”. In tal modo gli ebrei che si erano rifugiati in Italia per sfuggire alla persecuzione nazista, a prescindere dall’appartenenza a paesi nemici, furono schedati e segnalati per le misure d’internamento.

Degli ebrei italiani, il regime dispose l’internamento per i soli ritenuti “realmente pericolosi”.

La maggior parte dei campi fu allestita in edifici preesistenti, ville disabitate, fabbriche in disuso, scuole, caserme, conventi e case private, riadattati per le nuove esigenze. Le strutture che avrebbero dovuto ospitare i campi di concentramento, segnalate dagli ispettori di pubblica sicurezza e dalle locali questure, erano scelte in base a precisi criteri stabiliti dal Ministero dell’interno, funzionali a garantire un isolamento, per gli internati, logistico ed altresì politico e sociale. I campi, infatti, dovevano essere allestiti in stabili situati lontano da grandi centri o vie di comunicazione rilevanti, in zone non considerate militarmente importanti e distanti dalla linea di confine, ed in cui scarso fosse il livello di politicizzazione degli abitanti. Per questo, inizialmente, furono preferite località dell’Italia centro-meridionale, quasi sempre piccoli centri isolati, che garantivano una più facile sorveglianza e minore rischio di fuga.

Fino all’8 settembre 1943 furono 48 i campi di concentramento attivati dal Ministero dell’interno nell’Italia centro-meridionale.

Ognuno di questi campi, ad eccezione di quelli di Ferramonti, Fraschette e Farfa Sabina, tutti e tre  costruiti appositamente con baraccamenti funzionali a contenere dalle 2500 alle 4000 persone, ospitava dai 50 ai circa 350 internati. Alcuni erano campi per sole donne, quali Casacalenda, Pollenza, Lanciano (fino al febbraio del 1942), altri ospitavano interi nuclei familiari, come nel caso di Civitella del Tronto o quelli per Rom attivati a Boiano, Agnone e Tossicia.

Le condizioni di vita degli internati si differenziavano da campo a campo in rapporto alla rigidità con la quale i direttori applicavano e facevano rispettare le disposizioni e le prescrizioni impartite dal Ministero, oltre che ai rapporti che si istaurarono con la popolazione locale. La limitazione della libertà personale, gli ostacoli burocratici per ottenere permessi e ricongiungimenti familiari, il sovraffollamento, le carenze igieniche, il freddo e la mancanza di cibo che nel corso della guerra, malgrado il sussidio alimentare dato agli indigenti, divenne sempre più insufficiente, rappresentavano gli aspetti più duri e precari della reclusione nei campi di concentramento.

Relativamente differente era la condizione di coloro che furono destinati all’“internamento libero” che, pur dovendo sottostare alle prescrizioni ed alle non poche limitazioni impartite dal regime ed applicate dal locale posto di polizia, potevano muoversi all’interno del perimetro comunale.

L’istituto dell’internamento civile venne utilizzato anche dal regio esercito nelle zone occupate dalle truppe italiane.

Particolarmente rigida ne fu l’applicazione rispetto alle popolazioni della ex Jugoslavia, soprattutto per stroncare la resistenza partigiana, e numerose furono le deportazioni nei campi istituti sia in Italia che nei territori occupati. Gestiti dall’esercito, i campi di concentramento per francesi, slavi, albanesi e greci erano quasi tutti allestiti con attendamenti e baraccamenti, e le condizioni di vita degli internati erano pessime. La carenza di cibo e le precarie condizioni igienico-sanitarie provocarono la morte di numerose persone; nel campo istituito nell’isola di Rab (Arbe), soprattutto, in pochi mesi perirono circa 1500 internati.

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